Il pranzo di gala

Posted: Ottobre 17th, 2011 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Il pranzo di gala

Roma 15 ottobre, manifestazione della rete internazionale di People of Europe RiseUp e United for Global Change.

Già durante il corso della manifestazione i grandi media mainstream si sono affannati per lanciare le prime demonizzazioni, i primi facili e moralisti rimproveri sull’illegittimità di certe modalità di manifestare. Fiumi di parole create ad arte per dividere i supposti “buoni” dai supposti “cattivi”, per creare i mostri da sbattere in prima pagina, evitando di sviscerare accuratamente ancora una volta le reali motivazioni che hanno prodotto la rabbia vista ieri in tutto il corteo.

Ipocrita è pensare che la rabbia debba esprimersi solo entro una dimensione composta e cortese di partecipazione, manifestando le proprie idee attraverso la presenza numerica e gioiosa ad eventi come quello di ieri. Mentre i fatti stanno da un altra parte, in una generazione precaria deprivata di lavoro, diritti, pensioni, istruzione di qualità, casa e reddito. Costretta ancora una volta a venire soffocata dalla retorica dell’austerità, del “dobbiamo stringere la cinghia” per ripagare un debito non nostro, utilizzato strumentalmente per imporre manovre dove la precarietà costituisce l’unico orizzonte anche solo immaginabile per le nostre vite.

Ipocrite sono le parole del Signor Draghi che dall’alto del suo lauto stipendio e delle sue belle “letterine” di fatto impone ai precari e alle precarie di divenire l’agnello sacrificale da offrire alle agenzie di rating e alle banche internazionali. Questo singolare personaggio che pontifica giudizi nel più grande teatro mai esistito, quello mediatico, inscena la parte del padre-padrone che finge di “comprendere” i nostri bisogni e le nostre istanze solo se siamo docili e mansueti, ma sconfessali ancora più prepotentemente riducendo quanto successo ad un capriccio senza senso.

Al contrario, noi siamo profondamente convinti che la vera violenza sia quella che ci viene perpetrata giornalmente da contratti usa-e-getta, da stipendi ridicoli, da assenza di servizi, da un sapere sempre più mercificato, da diritti negati. Una violenza imposta nel silenzio assordante di cui sono complici i grandi mezzi di comunicazione di massa, che non a caso con la nostra precarietà costruiscono le fondamenta dei loro profitti (basterebbe che fosse reso pubblico il numero di giornalisti e gli operatori televisivi e radiofonici precari utilizzati ieri per raccontare quanto successo, sul loro lavoro poi le grandi testate giornalistiche vendono milioni di copie di giornale o registrano ascolti impressionanti).

Una violenza alla quale siamo educati sin da piccoli, offrendoci stili di consumo che non fanno altro che auto-alimentare una vita a debito, lasciandoci un intera esistenza a rincorrere rate e impieghi saltuari.

 

Una violenza che risulta ancora più opprimente perché raccontata come ineluttabile e necessaria, perché ci costringe a dover accettare sempre e comunque il male minore (che si tratti di politica economica, di scelta elettorale o di lavoro).

Ogni violenza subita, però, ha una soglia limite e quello che è successo ieri segnala il suo superamento.

Non si può recriminare che tale sorpasso non sia avvenuto attraverso strumenti pacifici perché semplicemente in questa fase storica, a nostro avviso, non poteva farlo.

Le pratiche e le forme organizzative che, per oltre un secolo, hanno fatto la storia della sinistra e del movimento operaio ormai sono completamente inadeguate, incapaci di rappresentare le nuove generazioni precarie. Mentre nuove opzioni d’intervento e di espressione di movimento, pur presenti, sono ancora in uno stadio germinale e, in altri casi, utili semplicemente a riprodurre il proprio ceto politico.

Non si può neanche vedere il 15 ottobre romano come un evento sconclusionato, un episodio venuto fuori dal nulla. È ormai da oltre un anno che lo scenario sia nazionale, si veda il 14 dicembre scorso, la lotta no-tav in val susa, sia quello internazionale sono in forte fermento. A tali grandi eventi si devono aggiungere importanti percorsi di rielaborazione rivendicativa e politica come è stato il referendum di giugno, ma anche il percorso degli Stati Generali della Precarietà.

Quella di ieri siamo convinti che rappresenti, per chi saprà mettersi in discussione ed uscire dai giudizi preconfezionati, una momento di svolta. Un cambio di paradigma dove un certo “know-how” politico dovrà necessariamente essere riposto in un museo, come reperto di un’altra epoca. Una svolta avvenuta in maniera imprevista e forse non immediatamente comprensibile, uscita da tutti gli schemi interpretativi con cui siamo stati abitati a leggere questi eventi.

 

In merito a queste ultime considerazioni riteniamo che la sfida dei movimenti e delle realtà autorganizzate sarà proprio quella di intercettare nuove modalità, nuovi percorsi e scenari di partecipazione ed intervento politico, soprattuto su quei temi (la precarietà), a nostro avviso cruciali, dove maggiore è la frustrazione e la rabbia covata individualmente.

Affiancando e alternando la furia iconoclasta,  con l’intelligenza della cospirazione e del sabotaggio dei profitti. Praticando diversi livelli di conflitto simultaneamente, aumentandone la complessità e quindi la pervasività e l’efficacia.

 

I fatti di sabato, da soli, non produrranno immediati miglioramenti, o modifiche della legge finanziaria (come del resto non l’avrebbero fatto gli sterili comizi che avrebbero dovuto esserci). Non saranno risolutori, né auto-sufficienti. Non dovranno neanche, a nostro avviso, costruire un manuale da replicare in ogni occasione di modo da riprodurre l’evento ritualistico spegnendone ogni valenza conflittuale.

I fatti di sabato devono rappresentare uno scarto, una messa in discussione di aree e progettualità politiche di movimento che devono assumere altri contenuti e modalità d’azione quotidiana.

Devono, pertanto, semplicemente essere letti per quello che sono stati: un momento di rottura.

Uno “spunto” che serva da stimolo a creare ed implementare nuove forme di aggregazione e azione sia diretta, sia di tipo comunicativo. Non ricreando schematismi o libretti d’istruzione del perfetto militante, mandando in soffitta ogni velleità di strumentalizzazioni elettorali di ciò che si muove dal basso. Una giornata di piazza dalla quale ripartire aperti a sperimentazioni e contaminazioni politiche, accogliendo la ricchezza delle espressioni di conflitto che dal Nord-Africa alla Spagna, dalla Grecia agli Stati Uniti, stanno emergendo.

Un compito difficile, un’ambizione a lunga gittata ma crediamo sia l’unico tragitto da percorrere perché da questo anno sia aprano scenari diversi, meno ingessati e dogmatici, più visionari e dinamici.

Flessibili come le nostre vite, determinati come i nostri contratti.

Tempi difficili, tempi di sciopero precario.

 


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